La
nave cavalca l'onda lunga del Tirreno ferendo il mare e quando la
cicatrice si richiude alle nostre spalle, a poco a poco, è una traccia
pietrificata sul marmo scuro dell'acqua. È quasi uno strano documentario
osservare i pesci volanti luccicare e librarsi sulla superficie
per scampare una morte quotidiana che viene dal basso, mentre i
gabbiani che ci seguono piombano loro addosso. Molti passeggeri
prendono il sole sul ponte scoperto, in un silenzio terrorizzante
ogni sedile sembra un altare con sopra una vittima propiziatoria
ben unta d'olio sacro che qualche dio diverso inghiottirà. È forse
l'ultima cerimonia religiosa rimasta all'occidente industrializzato
secondo lo spagnolo Manuel Vicent, spogliarsi, sdraiarsi su un asciugamano
aspettando solo di scottarsi e non desiderare altro, e nessuno che
non creda di essere baciato dalla bellezza. Chi non dorme o legge
all'interno vaga da prua a poppa in circoli continui, seguendo affinità
o semplicemente fuggendo il mal di mare che s'incarica di ricordarci
il nostro posto. Schermaglie amorose di coppie antiche ed imminenti,
mocciosi urlanti o placati dalla nausea, chiassosi romani travestiti
da persone eleganti, anime semplici, tutti attendiamo il vulcano
che si avvicina. Un altoparlante munito di marinaio racconta con
giornaliero trasporto la nascita delle isole dal mare e i click
delle macchine fotografiche cominciano a farsi sentire a mano a
mano che le prime case vengono più visibili e chiare a distinguersi
sul nero. Il sole del pomeriggio scende nella controluce della montagna,
nell'acqua nera e cristallina la nave raggiunge i quattro edifici
bianchi del porticciolo e la consueta corte dei miracoli di tutte
le piccole isole che rischiano l'isolamento ad ogni mareggiata.
L'intenso rumore del silenzio è quasi opprimente mentre accompagna
i primi passi e per una frazione, un attimo, sembra di sentir battere
l'antico cuore del vulcano. È una continua esplosione di colori,
la violenza delle bouganvilee rosse sporca di lampi i cubi candidi
delle case ed il nero della montagna, mille e mille infissi azzurri
e verdi sfumano l'argento di maioliche arabeggianti, vecchi senza
età sono seduti sulle porte a fumare pipe di schiuma guardando la
vita, e tu che mi accompagni sei il lampo più intenso. La spiaggia
è sabbia finissima, nera e dolce, ciottoli porosi caldi di sole
sono pezzi dell'energia immane del vulcano da portare a casa e stringere
nelle sere d'inverno. Un tuffo nell'acqua buia e il fondo subito
scompare rapito dal mare, torbido e cristallino, profondissimo subito
dopo riva, carico di velieri affondati, diceva Neruda, bare a vela
comandate da scheletri vestiti da ammiraglio. Un mare vivo, lo senti
che ti culla e ti riempie, pronto a scatenarsi per il volere del
dio che, là in cima, continua a fumare ed esplodere, mare caldo
di storia, di aromi e di genti, del primo delfino che accompagnava
la prima nave. Un mare affascinantee mai domo, pericoloso, da amare
come si amano solo una donna ed un'idea. Il paese si arrampica a
poco a poco ai lati di una stradina che sale la collina tra case
dal tetto piatto, fra volti e architravi spuntano negozi ed altari
colorati di souvenir, parei e capperi ad uso e sacrificio turistico
cui andare ad immolare. La piccola Apoteke lascia il passo ad una
terrazza che affaccia il faro dello scoglio di fronte che arde nel
crepuscolo. Appoggiati alla ringhiera il piccolo campanile rosso
ci guarda sorridere nel vento, mentre giochiamo ad immaginare una
sosta più lunga, una notte per perdersi, un mare di vino da bere
e navigare. La nave chiama ed un ritorno troppo precipitoso ci strappa
al delirio, appena allungato dal periplo dell'isola per raggiungere
la zona eruttiva del vulcano, la fuga di rocce e polveri e lapilli
verso il mare. La sommità è rossa di lava, a tratti un'esplosione
rischiara un cielo che va spegnendosi verso lo scuro assoluto, sembra
un Malevich disperato e geniale che cerca il nero sul nero mentre
gli sfugge una pennellata rovente. Gridolini eccitati e ancora scatti
di macchine fotografiche sporcano lo sfondo degli ultimi momenti,
il mare è ormai una lastra d'ossidiana lenta e faticosa scalfita
di luci lontane verso le quali la nave volge piano la prua. Dietro
la scia le ultime luci dell'isola impallidiscono e spariscono a
poco a poco insieme ai miei fantasmi, rimane solo là in alto il
tenue sorriso del vulcano che pare salutare benevolo. Ricambio con
un cenno, tanto, lo so, è soltanto un arrivederci.
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