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AUSTRALIA - Trenta ore da porta a porta di Angelo Bisinella

Il giro del mondo a due anni.

Gli abbiamo messo una valigia in mano, una piccola valigia, trenta centimetri per venti. Una piccola valigia per piccoli vestiti. Dentro c’era una maglietta, un paio di shorts, le sue ciabattine da spiaggia, ma sopratutto c’era la sua mezza dozzina di giocattolini preferiti obbligatori ed indispensabili.
Era uno spasso vederlo lì, in piedi davanti a sua madre con la valigia tenuta con entrambe le mani, fare la fila davanti al check-in per farsi assegnare un posto in aereo.
Era uno spasso vedere, al Marco Polo di Venezia, in un giorno di Marzo, un bambino di due anni, nervoso come non mai perchè consapevole che sarebbe salito su di un aereo per la seconda volta, con un sedile tutto suo, magari vicino al finestrino ma comunque vicino alla sua mamma, così grande, così protettiva, così orgogliosa di averlo vicino a sè.
Una bella sberla, rifilata con prepotenza sul bancone del check-in dove da poco avevamo appoggiato I nostri passaporti, fece capire alla signorina che stava perdendo troppo tempo e che la pazienza dei bambini piccoli ha un limite. Come pure quella dei bambini grandi d’altronde.
Ma com’è possibile che in Marzo si muova tutta questa gente, La sala d’imbarco non è piena come il primo d’Agosto, ma sembra che tutti vadano a Roma proprio oggi.
In realtà, questo volo per Roma di mattina presto è frequentato anche da chi a Roma ci va solo per lavoro, e per chi inoltre prenderà altre coincidenze per il resto d’Europa.


Quindi, con I posti assegnati per Roma e poi per Singapore, la famigliuola si dirige verso il Gate, manca un’ora alla partenza, fra mezz’ora ci faranno imbarcare, fra quindici minuti potremo entrare nella zona partenze, fra un minuto realizzerò che è tutto vero. Stiamo portando un bimbo di due anni ad attraversare il mondo, volare sopra gli oceani, incontrare culture diverse, ascoltare rumori, suoni, parole mai sentite, odorare profumi mai noti, ma sopratutto, giocare coi suoi due cuginetti Australiani.
Un’amicizia nata via satellite, con l’ausilio delle comunicazioni computerizzate, spedirsi foto per conoscersi, scambiarsi parole per capirsi, il tutto senza mai parlarsi.
In fondo, l’Australia non è poi così lontana, trenta ore da porta a porta.

Roma-Singapore.

Il Boeing stacca le ruote dal suolo e guardo il mio bimbo che non ha ancora chiuso la bocca da quando siamo entrati in questa scatola di metallo variopinta.
Ogni cosa ha il sapore del nuovo, del mai visto, del mai toccato. Figurarsi Lui, toccatore per eccellenza, nato con quattro braccia e quattro mani, esploratore per via orale d’ogni mondo che gli si pari innanzi, dal macrocosmo delle cose che non riesco a prendere neppure con due mani, al microcosmo della pulce che si appoggia sul bracciolo del sedile.
Tutto ciò che è a portata di mano, deve essere assaggiato, chissà mai che sia commestibile.
Il Boeing stacca le ruote dal suolo, e mi immagino la cavità toracica del mio bimbo, quel cuoricino piccolo piccolo che batte così forte, quei polmoni piccoli piccoli che trattengono il fiato all’infinito, e quegli occhi così sbarrati, spalancati al di più che mai ho potuto, vedo, guardo, ammiro, contemplo, degusto con gli occhi questa meravigliosa esperienza, questa novità, questo regalo che I miei genitori mi stanno facendo, mi fanno vivere oltre l’eremo del mio mondo, oltre il mio Box, oltre il mio lettino, I miei giochi, la mia cameretta, I miei nonni. Mi mancherà tutto questo? Mi mancheranno I miei nonni?
Sarò consapevole di ciò che mi accade giorno per giorno, vivrò questo gioco tutto nuovo come va vissuto? Mi ricorderò di tutto questo? Non penso, sono troppo piccolo.
E poi, mi mancheranno I miei nonni.

Lasciatemi stare, ora che la situazione è tornata calma, il cupo rumore dell’aereo, smorza leggermente il mio frigno, mi lamento, ho poco spazio attorno a me, non mi posso muovere come vorrei.

E poi il viaggio è così lungo, ore ed ore inscatolati in questo aggeggio di metallo e plastica, ricolmo di gente estranea che non ho mai visto, ci sono alcuni altri bambini, fatemeli incontrare, fatecimi parlare, fatemi giocare un po’ che poi dormo.
Quella del sonno è una questione che mi porto avanti da quando ho fatto il primo dente, non sono riuscito a capire ciò che mi accadeva in bocca. So soltanto che quella notte è stata un’esperienza tra le più traumatiche della mia vita, non come quella del parto, ma quasi.


Sono nato un mese e mezzo in anticipo, ma in quella pancetta non ci stavo più, ero ormai tre chili abbondanti, e smanioso di conoscere I miei.
Sono nato poco dopo la mezzanotte del venti gennaio del duemilauno. Come regalo per il mio secondo compleanno, Papà ha detto che mi scatterà una foto nel rosso deserto Australiano e con quella ci farà una cornice. Io avrei preferito Winnie the Pooh in versione peluche da metro, ma papà non è d’accordo.
Prendere sonno per me è sempre stato un problema, fin da quella notte del dente. Sentivo già prima di coricarmi che qualcosa in bocca non andava, nella notte, mille lame mi tagliavano il palato ed io pensavo fosse la fine.
Nonostante fosse nient’altro che l’inizio.

Per questo, ogni sera, ricordando quella notte, non posso addormentarmi se prima non ho la certezza che in bocca non mi accadrà nulla, e piango, e mi dispero perchè il solo ricordo mi tormenta la mente, le braccia di mia madre, mi avvolgono e mi danno serenità, sono al sicuro, non mi accadrà nulla. Buonanotte.
Le luci si spengono e le hostess tirano le tendine del loro magazzino affinchè nulla ci possa disturbare, dobbiamo tentare di dormire e magari di far dormire Lui, la piccola peste. In realtà, nulla negli ultimi minuti potrebbe farmi pensare che il piccolo Riccardo abbia sonno, e ciò presuppone che la battaglia tra il sonno e la veglia si protrarrà per lungo tempo, ci assorbirà diverse energie e scaricherà le già nostre provate riserve nervose. Proviamo in tutti I modi a convincerlo che è notte e che bisogna dormire, anche se all’ora solita ne mancano ancora tre, tre lunghe ore prima che il sonno si porti appresso questo frugoletto che stava nel palmo di una mano solo 20 mesi orsono e che ora, riempie un sedile d’aereo e monopolizza l’attenzione della hostess che serve la nostra zona.
Ragionandoci, troviamo un accordo, la sua concreta soluzione è la seguente : Fatemi giocare un po’ che poi dormo.

Che emozione vedere il mio frugoletto, quindici chili di anima in pena, accartocciato sul suo sedile, dormire beato. Sognerà l’avventura che sta per vivere?

Atterriamo a Singapore puntuali, quando la gente inizia ad alzarsi, noi rimaniamo seduti, ce ne andremo per ultimi, non abbiamo alcuna fretta, ci aspettano due giorni e due notti da trascorre a Singapore.

Il bimbo, l’anima di questo viaggio, è stravolto come noi, la faccia sfigurata di chi ha dormito col collo adagiato su di una bottiglia, con la frignetta di chi dice basta, lasciatemi fare ciò che voglio, camminare e giocare.

La gentilissima hostess, che nel frattempo s’era cambiata quasi che avesse una “vista” qui in città, si protende per aiutarci e raccoglie il bimbo che ha ormai adottato come mascotte personale per tutto il viaggio. Lui, per nulla intimidito le si getta al collo, e sembrano due mondi diversi, due piccole minute creature, che niente hanno in comune, scivolano via attraverso il corridoio tra I sedili del boeing fino a raggiungere l’uscita del portellone anteriore Lei avvolta nella sua liscia seta, lui a malapena contenuto in quegli indumenti che han dovuto sopportare l’energia dei suoi due anni. Mi giro e verifico di non lasciare nulla sui sedili, in realtà un po’ mi vergogno, in tre abbiamo creato un container di immondizia, nemmeno un riciclatore saprebbe dividere quel che rimane del nostro accampamento.

L’hostess ci accompagna fino all’imboccatura del tunnel, e lì Riccardo riceve l’ultimo bacio intercontinentale dall’altra hostess, quella dai caratteri somatici europei, frutto dell’incrocio tra culture e mondi diversi, o più banalmente e meno poeticamente frutto di una notte a letto tra un esemplare europeo ed uno asiatico.


La nostra perfetta organizzazione e pianificazione del viaggio ci permette di essere autosufficienti anche senza le due valigie grandi, quindi quando non le vediamo comparire sul tappeto motorizzato, non ci facciamo cogliere dal panico ma consideriamo che molta gente sta ancora aspettando e l’aereo era molto grande e molto pieno. Infatti, dopo un desolante vuoto, ricomincia l’afflusso dei bagagli, come al solito nutrito di scatoloni in vario formato, legato con spaghi d’altri tempi, valigette in nylon ultrasottile lacerate in più punti e finalmente, normali valigie occidentali con I colori del consumismo, giallo, rosso e blu elettrico. Un’arcobaleno di vanità che contraddistingue il turista che deve dire a tutti :” Eccomi, sono un turista, viaggio per il mondo con la mia carta di credito, I migliori hotel possono vantarsi di avermi ospitato. Vi siete accorti di quanto siano grandi le mie valige”?
Le due giornate che passeremo a Singapore, le dedicheremo principalmete allo shopping, applicando la regola che nessuno saprà mai se ci sei stato se non porti a casa almeno uno squallido souvenir. Per dire, se appoggio sulla mensola del camino, una scheggia di sasso rosso con scritto sopra Ayers Rock 1998, non farà lo stesso effetto che io ci appoggiassi una fedele riproduzione in scala della Tour Eiffel.
Mi rendo conto altresì che la città è comunque godibile, ricordo gli scorci della Bangkok ricca, quella senza I carretti col pesce messo a seccare, quella dei grattacieli della zona finanziaria, ci trovo qualche similitudine, nulla più.
Bella da visitare è senz’altro la baia, con I grattacieli del financial district a farle da contorno.
Peccato non poter spendere qualche ora in più per visitare le stupende opere architattoniche create da un pugno di uomini con l’intento di contenere qualche migliaio di propri simili.
La teoria del viaggio, quella che in vent’anni avevo costruito nella mia mente e che più volte ho utilmente ed inutilmente tentato di divulgare presso la mia comunità di amici e conoscenti, viene stravolta dalle necessità non prorogabili di quel piccolo uomo che ci portiamo appresso. Quando dormivamo in quegli squallidi hotel a basso prezzo, in quelle capanne irraggiugibili in mezzo all’oceano, in quel minuscolo campervan in mezzo al desrto, non avremo mai e poi mai pensato che un piccolo bimbo ci avrebbe condizionato nella scelta di un hotel piuttosto che un’altro, nell’orario più idoneo per la passeggiata o per la gita in barca. Non lo avremo mai immaginato. Eppure, sono rinunce queste, il cui peso non riesco a sentire, non potrei immaginare come mi sentirei se dovesse capitargli qualcosa. Al mio piccolo uomo.

Questo piccolo uomo, s’è incantato di fronte a quel vecchietto, quello che stà seduto sul marciapiedi con un braccio che penzola dal manico del suo carretto. Gli starà guardando la canotta, logora che anche il cotone sembra muoversi di suo, sudicia come la pubblicità di certi detersivi vorrebbe a campione. Gli starà guardando I piedi, incollati a quelle ciabatte infradito dallo spessore inpalpabile. Gli starà guardando la faccia, rugosa come la sabbia del mare d’inverno, solcata per lungo e per largo. Quella faccia che quando scorge il mio piccolo uomo fermo dinanzi a se, sfodera il sorriso delle migliori occasioni.
E quel piccolo uomo, messo a confronto con quel vecchio uomo, mi ricorda che siamo cittadini del mondo, da quando nasciamo a quando moriamo, e l’espressione del mio piccolo uomo, che girandosi mi guarda e sorride, mi lascia perplesso, perchè un bambino è riuscito a far sorridere quel vecchio uomo, che stamani ha visto passargli innanzi mille turisti, senza che alcuno di loro abbia potuto cambiargli la giornata.
Ma quella faccia tonda, quegli occhi grigi che la mamma risalta sempre vestendoli di blu, gli hanno strappato un sorriso.
Si ricorderà mio figlio di quel vecchio dalla pelle gialla seduto sul marciapiede di quella metropoli asiatica? Non credo, ma gli ho fatto una foto.
Domattina si riparte, I ricordini per amici e parenti li abbiamo collezionati tutti, come dice la mamma, prima lo si fa, prima ci si toglie il pensiero. Cosa diranno quelli che dopo un mese di Australia, potranno ricevere come pensierino una classica imbarcazione di Singapore in miniatura? Penseranno che basta il pensiero.
Pensieri di qua, pensieri di là, il taxi ci scarica di fronte all’hotel che ormai è sera, il caotico traffico della metropoli ci ha inghiottito e quindi sputato a destinazione senza che ci accorgessimo d’aver attraversato mezza città. Il taxista ci ha chiesto di dove fossimo, alla risposta Italia ha esclamato: “Ah, Europa!!”.
Che la conversione all’Euro abbia coinvolto anche I Taxisti di Singapore, mi sconvolge.
O forse al nostro amico bastava distinguerci dagli americani.
Fatto stà che ormai siamo scesi, l’abbiamo pagato e ci aspetta nient’altro che una tranquilla cenetta, poi ci porteremo sul terrazzo dell’hotel, dove ammireremo ancora le stupende luci della città, dove il nostro piccolo uomo potrà ancora puntare il dito verso l’orizzonte, a segnalare qualcosa che ha attirato la sua attenzione, quel dito che non ha mai smesso in questi due giorni di alzarsi al cielo, verso una meta che poco prima il suo sguardo aveva scorto. La curiosità mi frulla in testa, cosa starà tramando questo piccolo uomo? Due giorni lontano dal suo mondo e continua per Lui ad essere un gioco, non un viaggio.

Ciao Singapore.

A Melbourne dai parenti.

Ci si vede ogni quattro anni, quasi che fossimo atleti olimpici, ma ogni volta è più bello, e fors’anche più triste, in realtà gli anni passano, le persone invecchiano ed I malanni aumentano. Non c’è niente di peggio che guardare I bambini che giocano assieme, ti rendi conto che per te gli anni son passati, che certe emozioni non le potrai più rivivere, che la tua condizione fisica e l’età ti impediscono di far progetti a lungo termine. La malinconia mi attanaglia e divento patetico.
Quando venimmo qui nel 1994 per la prima volta, I miei cuginetti non avevano ancora la fidanzata, ora hanno procreato e sono quasi al “secondo giro”. I miei cugini, I loro genitori, risentono delle vicessitudini di gioventù. E che dire di noi due, nel ’94 eravamo pronti a scalare le vette del mondo, trasvolare gli oceani, attraversare I deserti. Ora, che ci stanchiamo per un’ora di autostrada, che abbiam pensieri solo per il frugoletto, ci rendiamo conto di quante occasioni abbiamo perduto, di quante volte avremo potuto visitare terre magiche come queste, di quante volte avremo potuto incontrare I nostri parenti Australiani, ai quali vogliamo così bene che vorremmo ci fosse un ponte a collegarci con loro. Ci hanno sempre accolto come loro figli, trattato come si tratta il migliore degli amici, trattato meglio di semplici parenti.
Melbourne è sempre più bella, anche se probabilmente sempre un gradino sotto a Sydney che vedremo alla fine di questo mese.
Le cittadine attorno alla città sono l’esempio di come dovrebbero essere le città vivibili. Niente inquinamento, mi chiedo se il clacson esista su queste autovetture o se sia solo un’optional. Son convinto che le persone facciano le città, ma che talvolta siano le città stesse a fare le persone.
Riccardo gioca con Dylan, pochi mesi li dividono, ma entrambi godono di una salute tale che riempie le guance e fa esplodere I bottoni della camicetta. A melbourne si esce ora dall’estate, e I Victoriani si aspettano un autunno caldo ed un inverno mite, non come quello dello scorso anno.
Lachlan è atteso per il pomeriggio, con papà Robert e mamma Kerryn, quindi per la sera si comporrà l’intera famiglia, affioreranno I ricordi degli anni passati, dell’estate del 2000, con tutti I cuginetti Australiani riuniti a Fontaniva. Il nostro Inglese monopolizzerà l’attenzione di tutti, relegandoci a voci di cinema che vanno doppiate per adeguarle alla scena. Non ho mai capito quanto fosse orribile il mio inglese o quanto in realtà sia incomprensibile il loro Australiano.
Fatto stà che mi ritrovo a snocciolare parole dove la pronuncia in cui confidavo da tempo mi si ripercuote nel cervello fino a farmi pronunciare frasi inedite il cui senso compiuto non è trascrivibile e per lo stesso significato e per la stessa parola, magari anche la più elementare, riesco ad inventarmi un numero variabile di pronuncie diverse, piazzo l’accento una volta quà ed un’altra là, fintantoch’è uno dei miei cugini che ancora parlano Italiano, riesce a comprendere il mio tentativo e genera una frase di circostanza che permette ai cuginetti di assimilare il significato dei miei tentativi linguistici. Solitamente dopo due tentativi, mi demoralizzo e lascio perdere, continuando ad usare il dialetto veneto che tanto garba a tutti.
Poi, se il mio calice si riempie e si svuota per almeno un paio di volte del vino delle Victorian vinery o della Foster’s, allora sì che imbrocco tutti gli accenti e le pronunce. Chissà.


Riccardo se ne stà seduto sulla sedia con I due cuscini che gli permettono di appoggiare il naso al tavolo, tutt’attorno il vuoto più assoluto, resti di gambero testimoniano quanto sia stata gradita la cena, dalle parti dei suoi cuginetti coetanei non è che vada meglio, dei tre bavaglini non ne salverei uno, ne farei un falò per non disseminare alcuna materia incomposita in giro per la casa. Come non detto, il tempo trascorre ferocemente e per la loro piccola pazienza, non si può sprecarne altro per dedicarlo al momento della cena, al rimanere seduti in quella sala da pranzo a chiaccherare del più e del meno, e di come vanno gli affari e la vita in generale.
Con lo stomaco pieno, si gioca meglio.
Lachlan è il più grandicello e comanda le operazioni, gli altri due seguono a ruota e sono inutili e vani tutti I tentativi di portare il gioco verso un momento di calma costruita, inutile presentare le costruzioni, I libretti con le figure, quant’altro di riflessivo si possa creare per far giocare un bimbo. E’ tutto inutile. La grande sala da pranzo di zia Connie si trasforma in una ludoteca dove le tre pesti sfogano le loro ultime energie.
Sono tre bambini sani, gioiosi e giocosi, ma quando Lachlan compie il balzo dalla poltrona dello zio Guido ed atterra al centro del divano, la cuginetta Kerryn scatta in piedi e mette fine ai giochi della fratellanza, tanto che tutte le mamme abbandonano la tavola e vanno ad acciuffare I loro figlioli, partorendo le solite frasi di circostanza, chi in Inglese e chi in Italiano. Nostro figlio in realtà non si è mai calmato solo parlandogli, ma la presenza e gli atteggiamenti degli altri ne condizionano le reazioni. Questo permette alla società nel suo complesso di ritrovare una discreta calma, dal nulla appaiono I biberon con il pieno di latte, le distanze tra I bimbi aumentano, I loro sguardi si incrociano e si intrecciano le comunicazioni.


“Tato, tato”, è l’espressione di Riccardo che indica il cuginetto a Lui più vicino. Un’ inpronunciabile somma di sillabe fuoriesce dalla bocca angelica di Lachlan, che per risposta ottiene un “Si, si, piccolo mio……. Adesso però basta…….domani”.


Noth and west coast


La britz è proprio dietro l’angolo, ancora cento metri e ci siamo. Qui a Darwin, è tutto nuovo per noi, la visita del 1998 è stata talmente breve che ci ha lasciato in bocca l’aquolina, la voglia di vedere ed assaggiare per bene questa città è tanta. Il primo impatto nel ’98 in verità non era stato dei migliori, avevamo parcheggiato il minivan in prossimità di un parchetto che dava sulla baia, ma I resti dei bagordi notturni ci avevano disgustato, immondizia e preservativi non sono un buon biglietto da visita per nessuna città.
In realtà, consumiamo un eccellente cena a base di pesce, passiamo la serata a passeggiare tra le larghe vie del centro e ci resta solo la notte in hotel, poi lasceremo questa città rifatta, dove di vecchio non c’è neanche l’uomo, e non avremo praticamente visto nulla. Peccato, sarà per la prossima volta.
Entriamo negli uffici della britz, compiliamo I moduli necessari ed eccoci pronti alla nuova avventura. Ci aspettano ottomila chilometri di Australia, venti notti da passare quà e là, dove ci porterà il nostro mezzo 4WD, perchè c’è sì un programma dettagliato, ma non sono da sottovalutare le imcognite, legate alle condizioni delle strade e alla stagione delle piogge che è appena trascorsa.
Ancora una volta, incrocio le dita, nella speranza che il destino mi faccia indovinare le rotatorie, che con la guida dalla parte sbagliata non mi ci sono mai trovato. Per le prime va tutto bene, quindi son fiducioso per il resto.

Abbiamo sistemato il piccolo nel sedile del passeggero e la mamma si è posizionata dietro, accanto ai bagagli. La 4Wd è accogliente quel che basta, le nostre valige son sistemate al meglio tanto da non doverle scaricare ogni volta che ci si fermerà.
I giochi ed I biberon del bimbo sono presto reperibili, come la necessaria acqua potabile. Siamo pronti, ho già percorso trenta chilometri e mi rendo conto che siamo pronti, l’avventura stà realmente avendo inizio.

Cambio in corsa.

Forse un viaggio di questo tipo, con un bimbo piccolo così, è un’avventura un po’ avventata. Quest’uomo alto meno di un metro, corre pericoli che noi non valutiamo fintantochè lo guardiamo lì, sdraiato sul sedile, accanto alla mamma, dormire dei suoi sonni più tranquilli, siam convinti che anche per lui sia vacanza, sia divertimento. Non lo staremo forse stressando oltre I suoi limiti? Non gli staremo imponendo uno sforzo che noi vogliamo lui faccia, senza avergli chiesto prima se avesse voluto farlo? E’ per questo che il nostro viaggio, pianificato all’inverosimile, seguendo comunque le sue esigenze più delle nostre, subirà certamente delle variazioni, non ce la sentiamo di chiedergli di sopportare più di quanto sia nel suo fisico, non ce la sentiamo di fargli fare quello che noi vorremo lui faccia. Eviteremo di farci programmi a lunga scadenza in questi giorni, verificheremo sera per sera l’opportunità di seguire il programma di viaggio o di modificarlo, senza sentirsi in obbligo di rispettare alcuna tabella di marcia.
E’ questo il cambio in corsa, il viaggio in Australia di papà e mamma con bimbo al seguito, diventa il viaggio di Riccardo accompagnato da mamma e papà.
E’ per questo che, mentre aspettiamo che il serbatoio del nostro mezzo venga riempito, decidiamo di ripercorrere le due centinaia di chilometri che dividono Darwin da Barrow creek e quindi fermarci lì per rivivere quei momenti assolutamente fantastici che hanno inciso solchi profondi nella nostra memoria, quei minuti passati a mollo nelle calde acque sorgive di quel ruscello che sgorga dal nulla e riempie di vita un angolo sperduto di foresta australiana.


Douglas Hot Springs

Decidiamo di passare la notte al Daly Park Motel, la cui insegna indicativa non preannuciava nulla di buono, mentre l’impressione sul luogo è migliore.
Il Motel è lontano poche miglia dal bivio che ci porterà l’indomani a bagnare I nostri piedi nella calde acque sorgive del douglas river.
Al Motel arriviamo che ormai è pieno pomeriggio. La strada che ci conduce attraversa campi di terra rossa con palizzate che ne delimitano le proprietà, e non riesco a capire se sia terra coltivata o solo delimitata.
Veniamo accolti molto cordialmente, la birra fresca vale come benvenuto, qui come altrove è impossibile rifiutare.
La camera è discreta e ci proietta immediatamente nella realtà Aussie, no frill room. Camere senza fronzoli.
Conveniamo che non sia il caso di avventurarci alla ricerca di un ristorante che peraltro non abbiamo visto venendo qui, ed accettiamo l’offerta di fermarci al ristorantino del park dove ci viene servito un “Barra” gustoso, apprezzato pure da Riccardo.


Il suo viso spunta appena dal tavolino non fa in tempo ad ingoiare l’ultimo boccone che il suo culetto appoggiato in quell’inutile sottile cuscino comincia a sentire le spine che trapassano il morbido pannolino e impediscono al Tato di rimanere seduto ancora per un solo secondo.
E via, si riparte. Il mio Barramundi è quasi finito, ma lo devo lasciare per un attimo, tornerò non appena Riccardo deciderà di fare pausa, tra una corsa e l’altra.
Dal nulla sbuca un tizio, trasandato come un camionista Ungherese, col cappello in testa ed un Didgeridoo per mano.
Si avvicina al padrone del Motel, si conoscono, tanto che il tizio dopo due parole, va ad aprirsi il frigo e ne esce una birra che apre in un istante ed inizia a bere.
Dopo pochi minuti, I pochi avventori del motel sono riuniti attorno alla piscina piccola dove, illuminato dalla fioca luce di un faretto da giardino, il nostro ospite inizia a soffiare nel tubo e ne ricava il classico suono del deserto Australiano.
Era un momento che stavo aspettando, anche se a gonfiare le mascelle, immaginavo un Aborigeno, colorato in viso e sul corpo, non un bianco dall’aspetto trasandato.
Sono quasi le dieci, e gli occhietti di Riccardo stanno a malapena aperti. Dieci minuti di lagna, valgono un’ora di ninna nanna ed il tato comincia a partire anche senza il suo latte.
Lo piazziamo al centro del letto, perchè l’aspetto poco rassicurante del lettino da campeggio autorichiudente autoincastrante ne sconsiglia l’uso.
Fatto stà che quella notte, come era prevedibile, l’unico a dormire è stato lui.
Alle tre mi alzo, mi avvicino alla finestra e non posso fare a meno di pensarmi lì fuori, oltre quel basso recinto, a soli trenta passi dalla camera in cui stavo dormendo, ma comunque in mezzo al bush, in una notte Australiana.
E’ la voglia di rivedere il cielo senza inquinamento luminoso che mi fa sgambettare fino a quel masso rosso, appena oltre il cespuglio.
Alzo la gamba salendo sul masso e mi sollevo da terra di mezzo metro. Alzo gli occhi al cielo e finalmente godo di quel nero che mi pervade le pupille, fisso una stella e provo a cancellare le altre, provo e riprovo ma è impossibile.
Milioni di stelle stanno lì a guardarmi, son loro che fissano me.


Scruto oltre l’orizzonte, cerco le sagome delle basse colline attorono al Motel e talvolta vedo un punto luminoso in lontananza, magari là c’è una strada, e I fari delle auto puntano verso di me. Allora c’è qualcun’altro in giro.
Lascio la mia postazione e mi accorgo che mi sta venendo incontro un animale che identifico come il cane di casa. Per fortuna la luce delle stelle lo illumina a dovere, e minimizzo il pericolo.
Lo saluto affettuosamente ed anche lui ricambia.
Torno a letto con le mie mutande e la mia maglietta impolverati dal salto della staccionata. Nessuno si è accorto di nulla.
Mamma è qui a destra, Papà a sinistra, io sto nel mezzo. Allora non siamo a casa, dove il lettone grande dei miei rientra nella lista di quei tabù che non mi è riuscito di sfatare. Tutti divieti da rispettare rigorosamente. Pena corporale nel caso di mancato rispetto. Ma adesso ricordo, son due giorni che papà e mamma mi fanno scendere e salire da quella orribile e rumorosa e scomoda macchina che non avevo mai visto prima. Che mi chiedono di salutare gente che quando parla neanche loro capiscono. Son due giorni che siamo scesi da quella scatola di ferro colorata che per dieci ore ci ha tenuto incollati a delle sedie come dovessimo passarci la vita.

Lasciamo stare I ricordi, sono le sei e mi pare che sia ora del mio latte. Io adesso provo a fare uno strillino, se non basta sono pronto anche ad esagerare, purchè uno dei due si sbrandi e vada a riempirmi il bibe di latte che ieri sera ho visto che la mamma lo chiedeva al signore dietro al bancone. E via, ha inizio una nuova giornata.

La mamma sfoggia il suo miglior costume, nella ferma convinzione che le occasioni per farlo saranno poche in quest’avventura.
A me spetta il compito di verificare I potenziali pericoli di un bagnetto caldo per il nostro bimbo.
Lo scenario è rimasto immutato, il parco chiuso con la staccionata appena sopra la riva del fiume è rimasto tale e quale, ci sono delle indicazioni verso qualcos’altro oltre il limite della zona di parcheggio che analizzeremo più tardi.
Scendo in fretta attraverso il sentiero col bimbo in braccio e schivo quattro bimbi che imprecano a dismisura spingendosi l’un l’altro verso le zone dove l’acqua è più calda, appoggio il mio stressato culo su di un sasso che affiora appena, e mi sistemo affianco a due turisti spagnoli che identifico tali perchè lui porta un pantaloncino-costume con l’effige del Real Madrid.
Facciamo amicizia, ci raccontiamo le rispettive esperienze dei giorni precedenti in terra Australe ed io incappo al solito nei miei problemi linguistici per quando devo parlare al passato. Si genera un po’ di confusione, ma alla fine ne veniam fuori e raccogliamo utili informazioni per I prossimi giorni.


Nel frattempo, Riccardo si mantiene sereno, stà seduto sulle mie ginocchia, contemplando magari il paesaggio, guarderà I pappagallini svolazzare da un ramo all’altro, ammirerà I riflessi della luce del sole che penetra tra I rami di questa fantastica foresta pluviale, o ammirerà sua madre, libera e leggiadra immergersi nelle calde acque di questo ruscello che abbiamo lasciato in un caldo agosto del 1998 e poi ritrovato ora, intatto come mai avremo sperato.
Mi assalgono I soliti stupidi pensieri, dove le parole tornare a casa, vengono solitamente precedute da un perchè devo.
In realtà, non c’è risposta a questa domanda, perchè è tanto inutile la risposta come pura la domanda.
La verità, sta nel cuore, quel cuore che si stringe ognivolta che ci avviciniamo ad un aeroporto, ognivolta che le ruote dell’aereo si staccano dal suolo.
Cambiar vita è un gesto forte, estremo, non è da tutti riuscire a staccarsi dalla propria sfera affettiva.
Ed è per questo che quando visitiamo luoghi come questo, così diversi in assoluto dai nostri standard, che dobbiamo assorbire il più possibile di ciò che ci circonda. Emozioni su emozioni.

Emozioni su emozioni.

Siamo in Australia da pochi giorni, ed ho impressionato il bimbo in decine di fotogrammi, li conserverò fintantochè non mi renderò conto che lui riuscirà a vivere le sue emozioni, glieli mostrerò ed aspetterò di vedere la sua reazione. Aspetterò di rivivere con lui queste vecchie emozioni, e saranno ancor nuove emozioni.
Emozioni su emozioni.

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